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Migranti, siriano in Turchia: “Un incubo, minacciano di deportarmi”

BariMigranti, siriano in Turchia: “Un incubo, minacciano di deportarmi”

ROMA –  “Non è più vita la mia: ho perso la mia casa ad Aleppo, in Siria nel 2015, e ora ho perso anche quella a Konya, in Turchia. Non mi trattano da essere umano. Qualcuno deve aiutarmi a uscire da questa situazione; se ho commesso un crimine, almeno mi dicano quale”. Così all’agenzia Dire Anas Al-Mustafa, un profugo siriano che da oltre un anno è costretto a vivere nascosto perché la polizia minaccia di rimpatriarlo in Siria.

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Al-Mustafa da sei anni risiede in Turchia, come altri milioni di siriani sfuggiti alla guerra. Cosciente delle difficoltà che i suoi connazionali incontrano, a Konya Al-Mustafa era riuscito a ricostruirsi una vita fondando l’organizzazione umanitaria Friends Indeed, con cui raccoglieva fondi per fornire pacchi alimentari. In Turchia, sia per la mancanza di lavoro che per l’alto costo della vita, tante famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese.

A maggio del 2020 però accade qualcosa: non solo la richiesta di cittadinanza non va a buon fine ma Al-Mustafa viene arrestato dagli agenti e riportato a Idlib, in Siria, città preda dei combattimenti tra l’esercito di Damasco e le milizie ribelli, tra cui Al-Nusra. Troppo rischioso restare e così l’uomo torna per vie irregolari in Turchia, ma ora, non godendo più dello status di rifugiato, Al-Mustafa è costretto a vivere nascosto, con l’incubo di essere deportato da un momento all’altro.

L’uomo denuncia: “Le organizzazioni internazionali non hanno nessun potere qui in Turchia. L’Agenzia Onu per i rifugiati Unhcr sostiene di non potermi aiutare mentre la Corte europea per i diritti dell’uomo ha respinto la mia denuncia, perché mi chiedevano di adire un tribunale in Turchia. Ma queste pratiche, lo so, durano oltre due anni. Non posso aspettare tanto”.L’avvocato che segue il caso di Anas Al-Mustafa non dà garanzie, perché, spiega Al-Mustafa, “non sappiamo perché mi hanno deportato ma se mi vengono contestati reati sono pronto a risponderne. Devono però dirmi quali sono. Io non sono un criminale. Voglio avere una vita normale”.

Il rifugiato prosegue: “Se la mia casa ad Aleppo esistesse ancora, tornerei in Siria immediatamente, ma è stata distrutta e il Paese oggi è troppo pericoloso. Dove devo andare? Ditemelo e lo farò. La comunità internazionale deve fare qualcosa”.

Dal 2019 la Turchia, che accoglie oltre 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani, avrebbe iniziato a rimpatriare forzatamente le famiglie verso il nord della Siria nonostante sia ancora preda di violenze. Nel report ‘Sent to a war zone: Turkey’s illegal deportations of Syrian refugees’ Amnesty International riferisce che secondo le autorità nel 2019 ben 315.000 persone avrebbero accettato “volontariamente” di tornare. “La tesi di Ankara secondo cui i rifugiati stanno scegliendo di tornare direttamente nel conflitto è pericolosa e immorale. Piuttosto, la nostra ricerca mostra che le persone vengono ingannate o costrette a tornare” ha dichiarato Anna Shea, ricercatrice sui diritti dei rifugiati e dei migranti di Amnesty International.

Sul tema della gestione dei rifugiati siriani da parte della Turchia è in corso una forte polemica in Europa: nel 2016 l’Ue concesse ad Ankara tre miliardi di euro per gestire il fenomeno, evitando che i profughi entrassero nell’Unione, un accordo che quest’anno è stato rinnovato. Il 25 giugno la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato un altro pacchetto da 3 miliardi fino al 2024, incoraggiando Ankara a “maggiori sforzi in ambito commerciale, relativamente al certificato d’origine” dei prodotti esportati verso l’Ue.
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